La leggera brezza del mattino s’era trasformata in un forte vento di scirocco che portava in città la sabbia del deserto e rendeva il cielo di un giallo spento e l’aria ruvida come carta vetrata. La coda dell’estate sfiorava già i bordi dell’autunno e la sera avanzava sempre più in fretta, ma di certo avrebbe continuato a far caldo per diverse settimane ancora. Non era quello il momento migliore della giornata per tornare, dopo molti anni, nella casa in cui ero nata e cresciuta a cercare lo scialle di pizzo nero di mia madre.
Mia madre.
Era partita una mattina di fine aprile per raggiungere sua sorella in Australia: primo e unico viaggio della sua vita, e non era più tornata.
«Possibile che non riesci a trovarlo quel benedetto scialle?» chiedeva immancabilmente a ogni telefonata e io cominciavo a sospettare, anzi a temere, che i nostri rapporti sopravvivessero solo grazie a quel capo d’abbigliamento. E chissà che non fosse proprio quel pensiero a impedirmi di cercarlo.
Guardai il cielo, adesso notevolmente più scuro e per certi versi angosciante. Non mi sorrideva l’idea di affrontare la mia vecchia casa e i suoi ricordi in quell’atmosfera carica di sabbia e di inquietudini, così rallentai il ritmo dei passi sui lastroni lisci del corso principale, i valatuni, che rendevano precario il mio equilibrio, sospeso sui tacchi alti.
Imboccai il vicolo dietro il teatro comunale, mentre l’orologio della piazza batteva le sette, e al mio incipiente senso di colpa dissi che era troppo buio adesso per entrare in quella casa avvolta da ombre, oscurità e solitudine.
Da qualche parte, una finestra sbatté con fragore di vetri e un cane abbaiò. Avevo la bocca asciutta e i capelli pieni di polvere e non desideravo che tornare nel mio appartamento e, dopo un bagno caldo, sprofondare nel nulla di un maniacale zapping televisivo.
Il vento si era fatto impetuoso e lo respirai a occhi chiusi. Ma non sapeva di casa, né di ricordi, l’odore violento che improvvisamente colpì il mio olfatto. Mi guardai intorno, girando su me stessa al centro della strada deserta. Sì, il tanfo della morte era inequivocabile e sembrava provenire dalla casa di Giuseppina Cesarò, meglio conosciuta come a majara, la megera, per la sua fissazione di predire il futuro.
Avevo lasciato borsa e telefono in ufficio, come al solito, per cui tornai indietro di qualche decina di metri e suonai il campanello di una casa vicina. Quando, dopo lunghi secondi, la porta si aprì, mi trovai di fronte la signora Mariannina. Vista da lontano, con il suo fisico alto e snello, potevi anche pensare che avesse fatto un patto col diavolo, ma da vicino senza un filo di trucco e con i capelli biondo cenere spettinati, come mi appariva adesso, gli anni pesavano eccome sul suo viso incartapecorito e sulle braccia cariche di gioielli e vene blu.
Naturalmente la conoscevo bene, visto che in quel quartiere ero nata e cresciuta, ma sperai vivamente che fosse lei a non riconoscere me.
«Buonasera, sono Milena Costa…» Evitai di specificare il mio titolo di dirigente del locale commissariato.
«Buonasera, chi è lei?» Si asciugò le mani sul grembiule che copriva una vecchia vestaglia di un azzurro stinto.
«Milena Costa…»
«La figlia di Carmelina? Come sta la mamma?»
«Sta bene, grazie.»
«Ma che, ha intenzione di restare in Australia?»
Bella domanda! Anch’io avrei voluto conoscere le intenzioni di mia madre…
«Me la deve salutare tanto, tanto. Beddamatri, come passa u tiempu!»
«Già, il tempo passa quando ci si diverte…» mormorai. Lei non afferrò il mio sottile umorismo e se ne venne fuori con un mezzo sorriso, una scrollatina del capo e un eeeh, tipico di chi fa solo finta di capire. La sua titubanza mi permise comunque di andare subito al nocciolo della questione.
Seppi che erano tre giorni almeno che la Cesarò non si vedeva in giro, ma che non era un fatto insolito perché a volte spariva per qualche tempo.
Le chiesi di chiamare lei il commissariato, perché avevo fretta di tornare a casa della majara, nonostante avessi l’amara consapevolezza che ogni umano affanno fosse, a quel punto, semplicemente inutile.
La porta finestra della casa sembrava chiusa dall’interno, ma uno degli sportelli era appena accostato e non mi fu difficile rompere il vetro, infilare un braccio e aprire il chiavistello dall’interno. L’operazione non fu precisamente silenziosa e presto sentii posarsi su di me gli sguardi curiosi dei vicini. Deglutii un paio di volte per ricacciare la nausea, mentre l’aria fetida mi faceva lacrimare gli occhi; e tenendo un fazzoletto premuto su naso e bocca, entrai.
La casa non era il macabro antro della strega che avevo teorizzato da bambina; non c’erano pentoloni, né gabbie con ingenui fanciullini dentro: solo il cadavere di Giuseppina Cesarò. La sua testa era riversa contro l’alto schienale intagliato della sedia e la bocca spalancata in un urlo silenzioso che lasciava scoperti i denti, gialli e irregolari come antiche canne d’organo tarlate. A guardarla da vicino, col viso alterato dalla morte e il corpo disfatto da un avanzato stato di decomposizione, mi sembrò più vecchia di quanto ricordassi. In realtà, nessuno sapeva quanti anni avesse di preciso. Era una di quelle persone col tempo in bilico sul volto, senza un’età precisa, come se non fosse mai stata giovane, e ormai non avrebbe potuto essere più vecchia di così.
Nella mia memoria, aveva avuto sempre quella faccia, con gli occhiali dai vetri fumé a nascondere uno sguardo di fuoco. La ricordavo mentre passava per la strada con i suoi vestiti sgargianti, l’andatura a gambe larghe, dondolante ma decisa, l’antiquato cappellino con la veletta, la borsetta nera dal manico piccolo e rigido, che teneva col braccio piegato a 90 gradi, come se dovesse porgerla a qualcuno. Un personaggio d’altri tempi, che aveva terrorizzato, e insieme affascinato, i filuvespiri della mia infanzia, i caldi pomeriggi che le brave persone dedicavano alla siesta, mentre per le strade si aggiravano i malafruscùli e u monacu saccunaru, esseri malvagi che rapivano i bambini, infilandoli in fetidi sacchi o in un cesto, come minacciava il monaco dal grande sacco: Sugnu u monacu saccunaru e t’anfilu ‘nto panaru!. La mia età matura aveva privato la majara dell’antico fascino perverso, restituendole sembianze banalmente umane, mentre il flash della morte, scattato nell’infinitesimo istante di un battito di ciglia, le aveva lasciato sul volto una espressione di angosciante incredulità.
Distolsi lo sguardo dalla vittima e lo concentrai sul tavolo che le stava davanti. Era coperto da una tovaglia di plastica colorata con sopra una bottiglia d’acqua piena per metà, un bicchiere vuoto e otto carte divinatorie, sistemate in un cerchio quasi perfetto, rovinato dall’ultima carta alla sua sinistra, scivolata a terra.
Mi abbassai e la presi delicatamente, aiutandomi con un fazzolettino: la nera signora con la falce.
«Se ha fatto le carte per sé, ci ha proprio azzeccato!» mormorai, mentre la sirena di una volante si spegneva con un ultimo lamento davanti alla porta.