
Il pavimento vibrò sotto il mio peso, mentre seguivo la voce del professore fino a una stanza piena di libri e dalle pareti tappezzate di quadri e vecchie foto. L’odore di polvere, di carta vecchia, di fumo stantio, e di qualcosa di acre che non riuscivo a distinguere era penetrante, e i vetri sporchi della finestra filtravano con difficoltà gli ultimi pallori del giorno e le prime luci della sera. Palumbo era là, a un angolo della scrivania coperta di carte e di libri, seduto su una poltrona rivestita di similpelle rossa; da due strappi profondi, lungo i bordi di un bracciolo, fuoriusciva il rivestimento che si sbriciolava e cadeva giù, come polvere sottile, a ogni movimento del corpo.
Nonostante fosse seduto e avesse le gambe coperte da un plaid, si intuiva che dovesse avere un’altezza fuori dal comune. Era magrissimo, con le guance incavate e il naso aquilino dalle narici larghe; indossava una giacca da camera color amaranto, visibilmente sporca e stretta in vita da un cordone di lana. Doveva essere stato un bell’uomo in gioventù, ma il tempo aveva annacquato gli occhi azzurri, stendendo una patina gialla sulle cornee, sui capelli bianchi che uscivano a ciocche dal basco grigio, e sul sottile baffo che tracciava labbra altrettanto risibili. Erano gialle anche le dita della mano destra, ma più che il tempo, in quel caso, doveva essere stata la nicotina contenuta in sigarette rudimentali, come quella che anche in quel momento teneva stretta tra indice e medio, realizzata a mano e con tabacco di infima qualità, a giudicare dall’odore.
In nome di una innata galanteria, il professore accennò ad alzarsi, facendo leva sulle braccia tremanti e, quando gli feci cenno di rimanere comodo, gli occhi cerulei si velarono di infinita tristezza ed ebbi la sensazione che sulle spalle reggesse un insopportabile fardello di rimpianti e probabilmente anche di rimorsi.
«Mi scusi se sono venuta a disturbarla.» Gli porsi la mano. «Ma credo che lei sia il solo in grado di aiutarmi a risolvere un piccolo enigma.»
Mi guardò come se cercasse negli archivi della memoria il mio viso.
«Lei è un commissario?» Non fece nulla per nascondere sorpresa mista a disappunto.
«Sì, sono una donna.» Ammisi con sarcasmo.
«Mi scusi. Non volevo essere scortese, ma sono un uomo all’antica che non trova il suo luogo e la sua pace in questo tempo.»
«Non fa niente: purtroppo sono ancora in tanti a pensare che le mani di una donna sono fatte più per tenere un mestolo che una pistola.»
«Lei usa la pistola?!»
«Se costretta…»
«Ha mai ucciso qualcuno?»
Cos’era? Un interrogatorio?
«Sparato sì, ucciso no.»
«Non mi fraintenda, non voglio sembrarle indiscreto, ma da moltissimi anni, come un animale notturno, mi crogiolo nella luce azzurrognola della tivù, nutrendomi di storie effimere, filtrate dal teleschermo, e mi chiedo spesso come sia diventata la realtà, quella vera.»
«Capisco…» Sorrisi, abbassandomi verso la sedia che mi aveva indicato con la mano.
«Quindi lei è un commissario di polizia…» osservò come se fosse appena arrivato a questa conclusione, seguendo un preciso ragionamento. Non sottolineai che in effetti, più che commissario, ero vicequestore aggiunto.
«Le cose cambiano a un ritmo vertiginoso per chi, come me, è abituato a muoversi a piccoli passi. Sarò anche un vecchio rincoglionito, ma questa mania di bruciare i giorni, che tutti chiamano progresso, per me è solo un cancro che porterà il genere umano alla rovina. Lei è siciliana?»
«Abitavo proprio qui di fronte…» Mi chiesi se stesse fingendo o se davvero non ricordasse chi ero.
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