#estratto … Posteggiai davanti al cancello con qualche minuto di anticipo sull’appuntamento e mi chiesi se il giornalista fosse già lì. Un toc toc di dita sul finestrino del lato passeggero mi diede, qualche secondo dopo, la risposta.
«La dottoressa Costa?»
Mi abbassai a guardare attraverso il vetro e annuii, poi presi la borsa e scesi dalla macchina, andando verso di lui con la mano tesa.
«Il dottor Rapisarda, presumo. Piacere di incontrarla.»
Gianfranco Rapisarda doveva aver passato abbondantemente i settant’anni, nonostante i capelli di un improbabile nero corvino che scendevano quasi a sfiorargli le spalle, crespi e sfibrati. Era alto e magro, solo un po’ gonfio nel viso dal colorito olivastro: il suo aspetto faceva pensare a un ballerino di flamenco o a un suonatore di violino gitano. Indossava un vestito grigio scuro, camicia bianca e cravatta nera; una mise adatta a qualunque cerimonia, matrimonio o funerale che fosse: mi chiesi se girasse vestito sempre così o se si fosse messo in ghingheri solo per incontrare me.
«Dunque era quello l’ingresso per l’inferno…» mormorai, guardando verso il viale alberato, al di là del cancello.
«Proprio questo» confermò con un tono di voce al limite della disfonia. «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate, avrebbero dovuto scrivere su quella pietra. Venga, andiamo dentro. Ormai è tutto cambiato, grazie a Dio, ma forse potrà farsi lo stesso un’idea di quello che è stato, un tempo, questo posto.»
L’edificio, per ironia della sorte, o per sadismo umano, sorgeva su una collina che dominava una valle rigogliosa, la cui bellezza strideva contro le grate delle finestre. Mentre attraversavamo un lunghissimo corridoio, Rapisarda mi raccontò di uomini e donne che avevano passato la vita rinchiusi in un vero e proprio lager: una umanità disperata, dimenticata da dio e dagli uomini. Solo la morte aveva, alla fine, mostrato misericordia, portandosi via più di duecento pazienti in dieci anni. Decessi il più delle volte non certificati o liquidati con frasi sommarie: niente date, nessuna diagnosi, spesso nemmeno una firma, a parte qualche sigla indecifrabile, scarabocchiata da medici o infermieri. Morti tanto sospette che la magistratura aveva avviato indagini, ordinato la riesumazione dei cadaveri, sequestrato cartelle cliniche e diari terapeutici. Ma la gran parte dei decessi era stata causata proprio dalle condizioni disumane in cui erano costretti a vivere i malati: malattie infettive alimentate da locali malsani i cui pavimenti erano spesso usati come latrine, così lerci che la suola delle scarpe ci si attaccava sopra e camminarci era una gran fatica. Uomini e donne ridotti a dormire per terra o su giacigli sudici, ributtanti come ascessi putrefatti; che mangiavano una sola volta al giorno, quando dalla cucina arrivava un pentolone senza coperchio, con dentro qualcosa che non si poteva nemmeno chiamare cibo; che bevevano e sputavano, e forse anche pisciavano, indistintamente, dentro le stesse tinozze.
Rapisarda snocciolava orrori su orrori e il peso sul mio cuore diventata un insopportabile macigno.
«Spesso erano ancora bambini quando li rinchiudevano qui. Sette, otto, nove anni appena…»
Oddio! Bambini?! Com’era possibile?! L’idea stessa di un bimbo di sette anni, strappato al suo mondo e rinchiuso lì dentro, mi era insopportabile. Come si era arrivati a tanto e soprattutto in un tempo non sospetto? Perché non è che stavamo parlando del Medioevo, ma di una manciata d’anni prima del terzo millennio, anni che avrebbero dovuto rappresentare il culmine di civiltà e progresso e che invece avevano visto l’umanità finire, per l’ennesima volta, nel cesso! Chi aveva lasciato che dei bambini finissero in un incubo tanto spaventoso, senza la carezza di una madre a svegliarli, né un padre che scacciasse il buio dalle loro notti? Chi aveva permesso a orchi e streghe di uscire dalle fiabe ed entrare nel mondo reale, negando anche solo la speranza di un lieto fine o l’arrivo di un cacciatore che uccidesse il lupo cattivo?
Pensai a Carla, che lì dentro aveva vissuto anni e anni di convulsa solitudine, in un inferno in cui nessuno avrebbe dovuto essere scaraventato. Mai!
Il sole si era ritirato dalle finestre e scure ombre di desolazione avanzavano sulle pareti intrise di angoscia, che sembravano pulsare ancora delle grida dei matti disperati. Mi venne spontaneo portare le dita alle orecchie per farli smettere, per far cessare tutto quel dolore. Un’ondata di calore mi salì dalle viscere fino al viso, poi defluì, togliendomi l’aria. Ebbi un capogiro e mi appoggiai al muro…
L’estate dei dieci temporali
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