#estratto
La majara si trascinava su e giù per il corridoio, con in mano un piatto di minestra al brodo di pesce che puzzava terribilmente. Sorrideva da dietro la veletta del cappello e venne a fermarsi davanti alla porta della mia stanza, mormorando una cantilena mai sentita prima:
Appuiata’nta sta cantunera, dimmi cu sugnu nun mi diri cu era…
Indovinelli, sempre e soltanto indovinelli. La donna appoggiata a un angolo di muro che mi chiedeva di dirle chi fosse e non chi era continuava ad avvicinarsi. In mano teneva una busta di plastica, con dentro alcuni gattini che si muovevano sempre più adagio: poveri esserini che reclamavano il diritto all’aria e alla vita. La majara si piegò verso di me: il suo alito sapeva di morte e cercai di girare la testa per allontanarmi, ma ero incollata al materasso e, nonostante i miei sforzi, non potevo muovermi. Le tempie mi dolevano per la fatica e non riuscivo più a trattenere il respiro per ricacciare la nausea. Dovevo respirare, dovevo tornare a respirare! Aprii la bocca risucchiando l’aria. Nello stesso istante riuscii a schiodare le spalle dal letto e a scrollarmi di dosso l’incubo. Ricaddi sul materasso a faccia in alto, madida di sudore. La bocca arida, la lingua attaccata al palato, le guance risucchiate all’interno, le labbra strette. Feci schioccare la lingua e masticai a vuoto, mentre un sapore disgustoso mi tornava in bocca. Gli occhi spalancati dentro il buio, auscultai il cuore della notte che batteva veloce, all’unisono col mio. Respirai profondamente un paio di volte, per riportare il ritmo a un livello accettabile, poi mi voltai sul fianco destro: i numeri verdi della radiosveglia brillavano nel buio come gli occhi di un gatto. Le due meno venti! Pensavo che l’alba fosse vicina e invece era notte fonda e avevo dormito poco e male. Cercai una posizione che favorisse il ritorno del sonno, ma lo stomaco roteava come un’impastatrice impazzita. Mi voltai e rivoltai sempre più infastidita tra le lenzuola, finché mi parve di sentire un leggero fruscio nel corridoio. Avrebbe potuto essere uno dei tanti rumori che animano le case, la notte, e che solo il silenzio totale riesce a rendere appena più che percettibili. Poteva essere qualunque cosa, forse me l’ero perfino immaginato, ma alimentò la mia inquietudine già sensibilizzata dall’incubo da cui mi ero appena svegliata.
Alzai la testa e rizzai entrambe le orecchie: un cane abbaiò da qualche parte e un fischio annunciò l’arrivo dell’ultimo treno, poi di nuovo il silenzio. Mi riadagiai sul cuscino, cercando di rilassare i muscoli senza però riuscire a fermare il forte bruciore che dallo stomaco saliva fino alla gola.
Accesi la luce. Non avevo voglia di alzarmi, ma dovevo far qualcosa per rimediare ai peccati di gola della sera prima. Infilai le pantofole, assalita ancora da un forte senso di nausea, come se l’alito della majara fosse uscito dal sogno e ristagnasse davvero nella mia stanza. Ebbi un lungo brivido quando uscii dal piumone: infilai la giacca della tuta e, come un’ubriaca, mi avviai verso il bagno. Dai vetri opachi della finestra, il buio era appena affievolito dal bianco di uno spicchio di luna, mentre il rosso dei lampioni faticava ad arrivare fin lassù, al quinto piano.
Tastai con le dita la parete piastrellata alla ricerca dell’interruttore e la luce dei faretti a led mi fece strizzare dolorosamente gli occhi. Cercai delle pasticche di qualunque cosa riuscisse a togliermi il fuoco dallo stomaco, ma nell’armadietto dei medicinali c’erano solo antidolorifici. Allora ricordai di aver cambiato posto agli antiacidi, che adesso stavano in cucina, così tornai indietro, immersa nel buio. La mia acidità era arrivata a livelli di guardia, quando lasciai cadere, in mezzo bicchiere d’acqua, la polvere contenuta nella bustina di digestivo.
A capo chino e con le braccia appoggiate sul ripiano appena illuminato dalla luce che filtrava dal vetro, guardai la polvere unirsi all’acqua e sciogliersi lentamente. L’aiutai agitandola energicamente con un cucchiaino, quindi bevvi tutto d’un fiato per non sentirne il sapore disgustoso. Fu in quel momento che la vidi.
La percepii con la coda dell’occhio e per poco non mi strozzai. Era appoggiata alla bottiglia vuota della coca cola sul tavolo e realizzai, con una lentezza esasperata ed esasperante, quale significato potesse avere quella busta bianca, unita al fruscio che avevo sentito qualche minuto prima.
«Ommioddio!» mormorai, appiattendo la schiena contro la fredda parete e fissando, ora a occhi sbarrati, il buio del soggiorno. Era come ripiombare nell’incubo di prima, ma adesso non stavo sognando: qualcuno era entrato in casa mia e avevo tutti i motivi di temere che non ne fosse ancora uscito!